Una piéce che lascia il pubblico con l'impressione di avere assistito a un insieme privo di una vera uniformità.
Buonanotte, tesoro! della compagnia romana Nomen Omen, scritto da Susanna Gentili (il programma del Fringe parla di sceneggiatura -sic!- non di drammaturgia o testo) si apre con una citazione dal Simposio di Platone, riportando (male) il mito che in quel dialogo è raccontato da Aristofane.
Il mito parla della pulsione amorosa dell'essere umano per persone dello stesso e dell'altro sesso spiegandola come desiderio di tornare a unirsi alla propria metà dalla quale ogni uomo e donna (originariamente con due sessi, quattro gambe, quattro braccia e due volti) sono stati separati e separate da Zeus per mitigarne l'arroganza. Questa antica e mitica spiegazione del desiderio anche omoerotico funge nello spettacolo di Gentili da cappello a tre storie squisitamente etero (allora perché scomodare il mito dell'androgino?), tre situazioni stereotipate dipinte con semplificazioni disinvolte e superficiali. Un padre ossessivo cerca di strappare la figlia alla madre degenerata, una donna cerca di separarsi dal marito, romano e dunque coatto, una famiglia alto borghese cerca di separarsi per finta con l'intento di frodare il fisco...
Queste tre storie si alternano dinanzi una giudice (appollaiata su una sedia da arbitro di tennis) che dispensa più consigli da consulente matrimoniale (con un buonsenso un poco cattolico) che sentenze da magistrata, mentre un baritono interpreta, tra una scena e l'altra, accompagnato alla tastiera, alcune arie della nostra lirica e alcune canzoni napoletana classiche.
Troppo attento a ricercare un registro realista che stenta a mantenere, anche a causa delle approssimazioni interpretative dei e delle interpreti, Buonanotte, tesoro! è vittima di una struttura narrativa poco ispirata che non sa declinare il portato delle storie raccontate limitandosi a ripropone meccanicamente l'alternanza delle scene e delle arie cantate senza una vera necessità drammaturgica. Le storie raccontate non propongono alcuna analisi che vada anche solo timidamente al di là di una trama prevedibile e annunciata. Una trama a tratti sessista, misogina e omofoba (la battuta di cattivo gusto sull'omosessualità maschile).
La piéce si chiude con la citazione del mito di Socrate (sempre dal Simposio platonico) che declina l'amore come desiderio di procreazione, se non fisica, spirituale senza sciogliere minimamente l'impressione di avere assistito a un insieme privo di una vera uniformità.